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Pagina pubblicata il 18/12/2003 aggiornata il 20/12/03 FUSIONE FREDDA (O FORSE FISSIONE FREDDA) TUTTA ITALIANA Miei cari amici, La teoria precedente dimostrava che, per ottenere la fusioni di nuclei leggeri, era necessario adoperare temperature elevatissime. Queste teorie erano suffragate da esperimenti molto importanti e da principi oggi quasi perfettamente dimostrati. La bomba termonucleare per esempio è una evidente dimostrazione di quello che stiamo dicendo. Un contenitore di deuterio e trizio (due isotopi dell'idrogeno), sono portati ad elevata temperatura grazie all'esplosione di una bomba atomica utilizzata appunto per l'innesco. La temperatura elevatissima di circa 10 - 20 milioni di gradi permette lo svolgimento della reazione di fusione tra il trizio e il deuterio che producono a loro volta enormi quantitativi di altra energia (purtroppo in questo caso estremamente distruttiva). Anche il nostro Sole (in base alle teorie attuali) produce energia grazie a reazioni
di fusione dell'idrogeno in elio. Anche queste reazioni sono facilitate dalla grande temperatura presente all'interno
della fornace solare circa 15 milioni di gradi. Era possibile fondere deuterio ed ottenere elio semplicemente utilizzando un pezzo di palladio e dell'acqua pesante. La risposta italiana all'annuncio della fusione del deuterio nel palladio non tardò a farsi sentire. Il gruppo A. De Ninno, A. Frattolillo guidati dal professor F. Scaramuzzi, dimostrarono che anche nel titanio, quando quest'ultimo assorbe a bassa temperatura gas deuterio, si verifica un surplus di energia e sono emessi neutroni. Lo stesso gruppo di ricercatori oggi, seguiti dall'illustre professor E. Del Giudice amico del compianto G. Preparata, con un esperimento molto accurato e preciso hanno dimostrato inequivocabilmente la produzione di elio4 dalla cella elettrolitica costituita da un catodo di palladio e da un anodo di platino immersi in acqua pesante. Inoltre, va a loro il merito di aver sperimentato un sistema molto efficiente per determinare la condizione di caricamento del palladio e determinare quindi l'esatto momento in cui le reazioni di fusione fredda prendono inizio. Dalla teoria di Giuliano Preparata, detta teoria della super-radianza, il palladio potrebbe forse in futuro risolvere molti problemi legati al nostro approvvigionamento energetico. Appena 1 cm cubico di palladio sarebbe in grado di fornire dai 3 ai 5 kW di potenza energetica. Merita certamente un riconoscimento indiscutibile anche il lavoro editoriale di Roberto Germano che nel suo libro "Fusione Fredda. Moderna Storia d'inquisizione e d'alchimia" riporta con fedele attenzione e accurato rigore cronologico i tanti esperimenti effettuati nel mondo sul problema della fusione fredda. Mentre tutto questo fermento di idee procede non senza difficoltà verso
la culminazione dell'antico sogno alchemico, scompare qualche anno fa lo studioso Renzo Boscoli, di complessa personalità,
che ha scritto articoli estremamente interessanti sulla possibile struttura fredda del nucleo solare assoggettando
alle teorie della fusione fredda appunto, la dinamica delle reazioni di energia che avvengono nel sole. Ho voluto
nominare il compianto Boscoli, per citare ancora uno degli straordinari pionieri di questa crociata per trovare
la pietra filosofale e cogliere l'occasione per chiedere scusa a quelli invece, che ho certamente dimenticato di
segnalare per quanto riguarda questo contesto. Poiché l'esperimento produce forti emissioni elettromagnetiche anche in banda ottica ed il nostro intento era in qualche modo anche la misura di queste emissioni, era necessario preparare una cella elettrolitica in vetro dotata però di caratteristiche adiabatiche per non degradare troppo l'energia termica presente in essa. Pertanto abbiamo utilizzato una cella in vetro protetta da una camera laterale, sempre in vetro, all'interno della quale abbiamo praticato il vuoto. Sia ben chiaro che, anche grazie a questi accorgimenti, il calorimetro è purtroppo dotato di forti perdite termiche, non altro per il fatto che il lato superiore deve essere completamente aperto per permettere la fuoriuscita dei gas prodotti dall'elettrolisi. Risulta evidente quindi, che siamo stati costretti a praticare oltre alla misura calorimetrica, anche una misura della quantità del liquido evaporato per stabilire l'ammontare dell'energia termica accumulata nella cella. La cella è stata dotata anche di un prolungamento superiore costituito
da due pezzi, uno di polietilene e l'altro di polipropilene con funzione di paraspruzzi. Questo accessorio deve
essere pesato La ventola aspirante è specifica per questo tipo di compito. State molto attenti ad utilizzare in questi casi solo ventole specifiche per aspirazione di fumi fiammabili. La distanza fra la bocca del tubo aspirante e la parte superiore della cella è di circa 10 cm, sufficiente per connettere le terminazioni elettriche agli elettrodi e collocare i trasduttori di misura. Il tubo a tiraggio si erge in alto per una distanza di circa un metro. E' molto importante aspirare i gas che si vengono a generare durante l'elettrolisi. Questi gas devono essere velocemente diluiti all'esterno poiché possono innescare pericolose esplosioni. Non approvo molto le immagini in rete nel sito di Naudin che illustrano una sistemazione troppo "fai da te" della cella e persuadono l'eventuale lettore che il fenomeno può essere riprodotto con facilità. Ricordate che la cella, anche se nelle condizioni di regime di plasma produce una ridotta quantità di gas, nelle fasi iniziali e finali si genera un'intensa produzione di idrogeno e di ossigeno in quantità stechiometricamente esplosive. La concentrazione della soluzione elettrolitica, per ottenere un ottimo effetto di plasma a carico dell'elettrodo catodico è costituita da 0.5 M di K2CO3. Una quantità pari a 200 ml di questa soluzione permette di riempire la cella al livello opportuno per evitare fuoriuscite di spruzzi oltre il livello del paraspruzzi. Proprio sopra il paraspruzzi è fissato un supporto plastico di metacrilato forato sul quale sono allocati sia il catodo che l'anodo distanziati per circa 4 cm. L'esperienza di Naudin utilizza un catodo di tungsteno e un anodo costituito da una pagliuzza di acciaio inossidabile. Nel nostro caso invece abbiamo utilizzato sia per il catodo che per l'anodo due elettrodi cilindrici di tungsteno puro di 17,5 cm con spessore 2,4 mm. Per reperire gli elettrodi di tungsteno, basta rivolgersi a negozi di ferramenta attrezzati per la saldatura tipo TIG. Attenzione, in commercio esistono elettrodi di questo tipo contenenti circa il 2% di ossido di torio. Per quanto normalmente venduti ed ammessi dalle leggi italiane io sconsiglio vivamente l'utilizzo di questi ultimi. Poiché durante la reazione elettrolitica si osserva un certo consumo dell'elettrodo catodico (l'anodo molto di più ), utilizzando tungsteno tipo toriato, incorrereste certamente in pericolosi inquinamenti della vostra soluzione con estremo pericolo per voi stessi. Il torio, come voi già sapete, è radioattivo. Scusate se mi ripeto in questo punto ma, state molto attenti. Il tungsteno toriato infatti, sta per essere ritirato dal commercio e al suo posto si sta già commercializzando un altro tipo di elettrodo TIG chiamato tungsteno ceriato che contiene cerio al posto del torio. Comunque, presso un rivenditore di utensili ed accessori per saldature, è possibile reperire con relativa facilità anche elettrodi costituiti da tungsteno puro quindi non dovreste avere difficoltà a procurarveli. La maggior parte dei produttori di questi elettrodi, utilizza un contrassegno verde per indicare l'elettrodo di tungsteno puro, mentre utilizza un contrassegno rosso per indicare quello toriato. Nelle immagini in rete sul sito di Naudin si osserva che l'elettrodo catodico
è a sua volta racchiuso in un tubicino di vetro. Questo espediente sembra essere molto importante per permettere
la scarica di plasma sul catodo. Ci siamo accorti (intanto per le condizioni sperimentali che sto descrivendo),
che occorre lavorare con circa 1 cm di elettrodo catodico scoperto. L'anodo invece può essere collocato
senza particolari problemi. Il tubicino di vetro utilizzato per coprire parte del catodo è di tipo pirex
ma il nostro gruppo di Caserta ha ottenuto migliori risultati quando abbiamo utilizzato un tubo ceramico. Infatti, quando la scarica di plasma viene generata, le temperature presso l'elettrodo raggiungono livelli elevatissimi. L'amico A.D. ha calcolato la temperatura raggiunta dall'elettrodo catodico ponendo superiormente ad esso un sensore di temperatura collegato con il computer. Nello strato di plasma pare che si verificano livelli di temperatura che oltrepassano i 3000 °C. In queste condizioni operative così estreme del catodo, il vetro del tubicino che lo avvolge si degrada e fonde. Normalmente la scarica di plasma prima passa per una fase azzurra molto breve poi si porta ad assumere un colore rosso arancio, infine raggiunge nelle condizioni a regime un colore viola o rosa per poi fornire al completamento ottimale delle condizioni di funzionamento della cella, un colore bianco. Considerando le condizioni dell'elettrodo nella fase iniziale, cioè la
fase buia o nera, mi sembra quasi il passaggio delle fasi alchemiche chiamate: nigredo, rubedo e albedo al compimento
della grande opera. Ovviamente questa mia suggestiva constatazione non deve essere presa alla lettera. Se usate
il tubetto di vetro, durante la prova osserverete purtroppo anche una curiosa colorazione gialla posta sopra la
zona di plasma che inquina i risultati di analisi radiometrica del bagliore. Questa colorazione, indica appunto
la fusione del vetro del tubicino. Il colore giallo è caratteristico dell'emissione spettrale del sodio
che è contenuto nel vetro. Per evitare questo fenomeno è possibile usare un tubetto di ceramica refrattaria
come l'allumina o altri tipi similari. Per apprezzare la qualità della scarica di plasma e determinare esattamente gli istanti temporali quando essa si presenta, abbiamo collocato nel nostro impianto due sensori. Un sensore è costituito da una cella fotoresistiva in grado di darci informazioni generali sulla luminosità della cella. L'altro sensore è costituito da un pirometro in grado di monitorare lo spettro di energia luminosa prodotto dal catodo. Inoltre, nella figura allegata appare anche un contatore di neutroni che abbiamo realizzato alla meglio per darci eventuali indicazioni di radiazioni nocive emesse dalla cella. Nell'articolo di T. Mizuno e T. Ohmori si legge che la reazione elettrolitica produce un flusso di neutroni pari a circa 60.000 conteggi al secondo. Vorrei far osservare che se questo dato corrisponde al vero, non è conveniente procedere alla verifica di questa esperienza senza munirsi di particolari protezioni. I neutroni sono un tipo di radiazione estremamente subdola e pericolosa. Essendo particelle prive di carica elettrica possono attraversare molti centimetri di materia prima di fermarsi. L'intensità di un flusso neutronico da 1MeV può essere ridotta alla metà solo dopo che essa attraversa 10 cm di acqua, oppure 4,5 cm di calcestruzzo, oppure 0,9 cm di piombo. Se invece il flusso originario fosse di 10 MeV occorrerebbero 14 cm di acqua per dimezzarlo. Fate attenzione che sto parlando di dimezzamento del flusso di neutroni. Quindi, per ridurre a livelli trascurabili il flusso della radiazione, occorrerebbe moltiplicare per 4 o 5 volte gli spessori delle sostanze che ho elencato sopra. Attualmente non conosciamo lo spettro di energia dei neutroni che vengono prodotti da questo esperimento. Comunque è molto importante sapere che la paraffina e il polietilene sono altri materiali schermanti grazie alla grande quantità di idrogeno presente nelle molecole che li compongono. Nel disegno sopra appare in evidenza una finestra trasparente in metacrilato (plexiglas) posta proprio davanti alla cella. Questo schermo (che ha uno spessore di diversi centimetri), è in grado di dare una certa protezione per i neutroni, se occorre necessariamente effettuare osservazioni del fenomeno, augurandosi che l'operatore si ponga a debita distanza e operi per brevissimi tempi. Un consiglio potrebbe anche essere l'uso di specchi combinati opportunamente per l'osservazione. A questo punto è spontaneo da parte del lettore chiedersi se noi abbiamo misurato o meno un flusso di neutroni. Allo stato attuale non possiamo rispondere con certezza a questa domanda. Il nostro precario contatore di neutroni potrebbe anche aver conteggiato dei disturbi elettromagnetici. Pertanto, sarà importante leggere una nostra successiva comunicazione per conoscere eventuali risvolti e sapere qualcosa di più concreto su questo punto. (ndr. a tal proposito si dia una lettura alla seguente pagina) La misura della temperatura ha presentato subito diversi problemi a causa delle forti emissioni elettromagnetiche del plasma che dicevamo poc'anzi. E' stato deciso di utilizzare un sistema integrato di acquisizione per tutti i segnali rilevati dai trasduttori, a sua volta completamente gestito da un personal computer, con un programma realizzato ad hoc per questa esperienza. Pertanto, è stato necessario utilizzare delle termocoppie per misurare le varie temperature presenti nel processo. Il sensore di misura della temperatura, immerso nella cella, è costituito da un involucro in vetro al cui interno è stata posta una termocoppia tipo J (ferro costantana) a sua volta schermata da un contenitore cilindrico di ottone cromato posto a massa. Questa disposizione non ha impedito la presenza di forti disturbi elettromagnetici che si presentano in modo evidente nell'immagine successiva nel quadrante in basso a destra. Un'altra termocoppia è posta (isolata galvanicamente) a diretto contatto dell'estremità superiore del catodo. Grazie a questa termocoppia è possibile ottenere informazioni sulle vicissitudini termiche di questo elettrodo. Un'ultima termocoppia è posta nell'ambiente per avere a disposizione anche quest'ultimo dato termico. Per l'alimentazione elettrica della cella è stato utilizzato un variac connesso ad un alimentatore in corrente continua in grado di erogare una tensione variabile da 0 a 300 volt con possibilità di fornire anche correnti di spunto di 6 A. Il sistema computerizzato registra costantemente tutte le grandezze campionandole diverse volte al secondo. Quindi mentre l'operatore regola il variac modificando il valore della tensione applicata alla cella, il sistema registra il valore di questa tensione, il valore della corrente circolante nel circuito di cella e tutti gli altri trasduttori presenti. In questo modo il sistema procede al calcolo delle calorie introdotte e di quelle via via misurate grazie ai sensori termici. La figura qui a fianco mostra, come esempio, quattro grafici relativi ad un'acquisizione
effettuata nel Quindi, per condurre l'esperimento è necessario porre il variac a zero volt e procedere lentamente fino al di sotto del punto di innesco senza oltrepassarlo. A questo punto esaminando i valori via via riportati dal computer è possibile determinare una linea di base e calcolare le perdite calorimetriche in questa condizione. Consiglio uno scan non superiore ad un centinaio di secondi a circa 120 V di cella. Una volta modificate le costanti nel programma si potrà procedere per la prova vera e propria raggiungendo il punto di innesco e misurando quindi, livelli di energia termica sensibilmente maggiori delle aspettative. Mi sembra ovvio che la misura calorimetrica risulta essere estremamente indicativa
poiché affetta da un numero molto elevato di errori. Le indicazioni calorimetriche devono essere necessariamente
interpolate attraverso i calcoli che tengono conto del calore latente di evaporazione dell'acqua e quindi dell'esatta
misura della quantità di acqua evaporata. Le prove calorimetriche devono essere di breve durata, per ridurre
l'errore prodotto dalla variazione della capacità termica del calorimetro a opera dell'acqua che evapora.
Molto importante deve essere anche il dosaggio della depressione creata dall'aspiratore dei fumi che non deve in
qualche modo modificare la pressione sulla cella per evitare che varino i parametri calcolati a pressione atmosferica.
Attualmente non possiamo e non vogliamo procedere oltre le prove pratiche che abbiamo già effettuato. Le ultime esperienze infatti, sono state effettuate in un laboratorio campale che non ci consente di operare in comodità per cui il nostro interesse alla cosa si sta attualmente concentrando solo sugli aspetti teorici, circostanziati a verificare le probabili reazioni di "fissione fredda", come ha avuto modo di definire scherzosamente il mio amico A.D. a proposito della reazione che T. Mizuno e T. Ohmori hanno proposto, oppure (come noi pensiamo), ad altre reazioni che possono prodursi in seno alla cella. Attualmente stiamo valutando due possibilità. Una di queste, potrebbe essere
una reazione di fusione nucleare ma, per adesso abbiamo solo delle interessanti coincidenze matematiche. L'altra
possibilità potrebbe essere una particolare reazione di pirolisi dell'acqua perpetrata dall'elettrodo di
tungsteno catodico. In questo momento infatti, abbiamo un'espressione matematica che mette in relazione
le calorie prodotte con il consumo di tungsteno. Ulteriori indagini e verifiche saranno eseguite per stabilire
la correttezza del nostro modello matematico. RACCOLTA di IMMAGINI Altre immagini dell'esperimento
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