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Pagina pubblicata il 18/12/2003 aggiornata il 20/12/03

FUSIONE FREDDA (O FORSE FISSIONE FREDDA) TUTTA ITALIANA

Miei cari amici,
poiché chi leggerà questo articolo è certamente uno che si discosta dal comune, certamente appassionato di ricerca scientifica, addirittura potrebbe essere un esperto di fisica, probabilmente conoscitore della free-energy e con un'apertura mentale molto ampia, sarebbe inutile qualsiasi cappello introduttivo o precisazione iniziale. Tuttavia, mi preme darvi informazioni molto precise e per essere coerente con il mio lavoro di divulgatore scientifico, voglio spiegare esattamente da dove inizia tutto quello che sta accadendo in questi giorni e quindi capire correttamente quello che stiamo dicendo.

INTRODUZIONE

Nel 1989 i ricercatori M. Fleischmann e S. Pons dell'Università di Southampton England e della Università dell' Utah negli USA, annunciarono di aver condotto un esperimento tramite il quale si dimostrava la possibilità di ottenere reazioni di fusioni nucleari a temperature relativamente basse.

La teoria precedente dimostrava che, per ottenere la fusioni di nuclei leggeri, era necessario adoperare temperature elevatissime. Queste teorie erano suffragate da esperimenti molto importanti e da principi oggi quasi perfettamente dimostrati. La bomba termonucleare per esempio è una evidente dimostrazione di quello che stiamo dicendo. Un contenitore di deuterio e trizio (due isotopi dell'idrogeno), sono portati ad elevata temperatura grazie all'esplosione di una bomba atomica utilizzata appunto per l'innesco. La temperatura elevatissima di circa 10 - 20 milioni di gradi permette lo svolgimento della reazione di fusione tra il trizio e il deuterio che producono a loro volta enormi quantitativi di altra energia (purtroppo in questo caso estremamente distruttiva).

Anche il nostro Sole (in base alle teorie attuali) produce energia grazie a reazioni di fusione dell'idrogeno in elio. Anche queste reazioni sono facilitate dalla grande temperatura presente all'interno della fornace solare circa 15 milioni di gradi.
Nel marzo del 1989 invece, due elettrochimici sovvertivano completamente questo concetto dimostrando la possibilità dell'attuazione dell'antico sogno alchemico perduto nella notte dei tempi della nostra storia umana.

Era possibile fondere deuterio ed ottenere elio semplicemente utilizzando un pezzo di palladio e dell'acqua pesante. La risposta italiana all'annuncio della fusione del deuterio nel palladio non tardò a farsi sentire. Il gruppo A. De Ninno, A. Frattolillo guidati dal professor F. Scaramuzzi, dimostrarono che anche nel titanio, quando quest'ultimo assorbe a bassa temperatura gas deuterio, si verifica un surplus di energia e sono emessi neutroni. Lo stesso gruppo di ricercatori oggi, seguiti dall'illustre professor E. Del Giudice amico del compianto G. Preparata, con un esperimento molto accurato e preciso hanno dimostrato inequivocabilmente la produzione di elio4 dalla cella elettrolitica costituita da un catodo di palladio e da un anodo di platino immersi in acqua pesante. Inoltre, va a loro il merito di aver sperimentato un sistema molto efficiente per determinare la condizione di caricamento del palladio e determinare quindi l'esatto momento in cui le reazioni di fusione fredda prendono inizio. Dalla teoria di Giuliano Preparata, detta teoria della super-radianza, il palladio potrebbe forse in futuro risolvere molti problemi legati al nostro approvvigionamento energetico. Appena 1 cm cubico di palladio sarebbe in grado di fornire dai 3 ai 5 kW di potenza energetica.

Merita certamente un riconoscimento indiscutibile anche il lavoro editoriale di Roberto Germano che nel suo libro "Fusione Fredda. Moderna Storia d'inquisizione e d'alchimia" riporta con fedele attenzione e accurato rigore cronologico i tanti esperimenti effettuati nel mondo sul problema della fusione fredda.

Mentre tutto questo fermento di idee procede non senza difficoltà verso la culminazione dell'antico sogno alchemico, scompare qualche anno fa lo studioso Renzo Boscoli, di complessa personalità, che ha scritto articoli estremamente interessanti sulla possibile struttura fredda del nucleo solare assoggettando alle teorie della fusione fredda appunto, la dinamica delle reazioni di energia che avvengono nel sole. Ho voluto nominare il compianto Boscoli, per citare ancora uno degli straordinari pionieri di questa crociata per trovare la pietra filosofale e cogliere l'occasione per chiedere scusa a quelli invece, che ho certamente dimenticato di segnalare per quanto riguarda questo contesto.

LA NOSTRA STORIA EBBE INIZIO…

Io, ed i miei carissimi amici A.D. e D.C. abbiamo seguito con estremo interesse le vicende del 1989 della fusione fredda anglo-americana e nel 1991 riuscimmo a preparare nel mio laboratorio un sistema a doppia cella differenziale per studiare in modo accurato il fenomeno della fusione fredda. Tramite un hardware molto sofisticato e attraverso l'uso di un computer, riuscimmo ad effettuare in modo automatico un certo numero di cicli di elettrolisi utilizzando due celle elettrolitiche che lavoravano contemporaneamente. La prima contenente acqua pesante e deuterossido di litio, era la cella di reazione principale. La seconda, usata per generare la linea di base, era costituita invece da acqua normale ed idrossido di litio. Notevole fu il contributo di A.D. mio amico carissimo e soprattutto esperto conoscitore della chimiche per quanto riguarda le sue idee relative alla collocazione geometrica degli elettrodi ed all'idea di utilizzare ultrasuoni a 1.44 MHz per catalizzare la reazione di fusione. Purtroppo vicende personali anche legate alla necessità di fondi ci costrinsero a chiudere completamente le ricerche nel 1994 senza misurare nessun risultato apprezzabile. Tuttavia avevamo fatto una straordinaria esperienza ed avevamo infine acquisito la pratica necessaria per misurare calorimetricamente soluzioni elettrolitiche in condizioni di evidente attività ionica.

IMPROVVISAMENTE UN'INTERESSANTE NOTIZIA

In questi mesi in rete è apparso, apparentemente in sordina, il famoso esperimento illustrato in modo abbastanza chiaro da Jean Louis Naudin. L'esperimento è qualcosa di molto interessante ed è un fenomeno scoperto da due fisici molto famosi, il professor T. Mizuno e T. Ohmori dell'Università di Kitaku in Giappone. L'amico D.C. di Caserta che ringrazio vivamente, fu determinante per consolidare il gruppo di lavoro che attualmente è operativo all'analisi teorica del problema. Il giovane D.C. è stato, per così dire, il catalizzatore che ha portato la nostra attenzione su questo straordinario fenomeno. Oltre ad essere stato il promotore della fase "studiamo questa cosa" è da attribuire certamente a lui la fase di esame iniziale della fattibilità del progetto ed il suo costante aiuto nell'analisi teorica dei dati in base alle osservazioni sperimentali. E' stato molto semplice per noi tre ripetere l'esperimento di Mizuno/Ohmori poiché disponevamo in laboratorio di quasi tutti gli elementi necessari.

COSA ABBIAMO ALLESTITO

Poiché l'esperimento produce forti emissioni elettromagnetiche anche in banda ottica ed il nostro intento era in qualche modo anche la misura di queste emissioni, era necessario preparare una cella elettrolitica in vetro dotata però di caratteristiche adiabatiche per non degradare troppo l'energia termica presente in essa. Pertanto abbiamo utilizzato una cella in vetro protetta da una camera laterale, sempre in vetro, all'interno della quale abbiamo praticato il vuoto. Sia ben chiaro che, anche grazie a questi accorgimenti, il calorimetro è purtroppo dotato di forti perdite termiche, non altro per il fatto che il lato superiore deve essere completamente aperto per permettere la fuoriuscita dei gas prodotti dall'elettrolisi. Risulta evidente quindi, che siamo stati costretti a praticare oltre alla misura calorimetrica, anche una misura della quantità del liquido evaporato per stabilire l'ammontare dell'energia termica accumulata nella cella.

La cella è stata dotata anche di un prolungamento superiore costituito da due pezzi, uno di polietilene e l'altro di polipropilene con funzione di paraspruzzi. Questo accessorio deve essere pesatoclicca per l'ingrandimento accuratamente quando è asciutto, in modo da poter misurare successivamente l'eventuale liquido che potrebbe fuoriuscire dalla cella di vetro. Superiormente alla cella è stato collocato una cappa aspirante costituita da un tubo da 18 cm di diametro alla cui estremità è stata posta una ventola funzionante in corrente alternata.

La ventola aspirante è specifica per questo tipo di compito. State molto attenti ad utilizzare in questi casi solo ventole specifiche per aspirazione di fumi fiammabili. La distanza fra la bocca del tubo aspirante e la parte superiore della cella è di circa 10 cm, sufficiente per connettere le terminazioni elettriche agli elettrodi e collocare i trasduttori di misura. Il tubo a tiraggio si erge in alto per una distanza di circa un metro. E' molto importante aspirare i gas che si vengono a generare durante l'elettrolisi. Questi gas devono essere velocemente diluiti all'esterno poiché possono innescare pericolose esplosioni.

Non approvo molto le immagini in rete nel sito di Naudin che illustrano una sistemazione troppo "fai da te" della cella e persuadono l'eventuale lettore che il fenomeno può essere riprodotto con facilità. Ricordate che la cella, anche se nelle condizioni di regime di plasma produce una ridotta quantità di gas, nelle fasi iniziali e finali si genera un'intensa produzione di idrogeno e di ossigeno in quantità stechiometricamente esplosive.

La concentrazione della soluzione elettrolitica, per ottenere un ottimo effetto di plasma a carico dell'elettrodo catodico è costituita da 0.5 M di K2CO3. Una quantità pari a 200 ml di questa soluzione permette di riempire la cella al livello opportuno per evitare fuoriuscite di spruzzi oltre il livello del paraspruzzi. Proprio sopra il paraspruzzi è fissato un supporto plastico di metacrilato forato sul quale sono allocati sia il catodo che l'anodo distanziati per circa 4 cm. L'esperienza di Naudin utilizza un catodo di tungsteno e un anodo costituito da una pagliuzza di acciaio inossidabile. Nel nostro caso invece abbiamo utilizzato sia per il catodo che per l'anodo due elettrodi cilindrici di tungsteno puro di 17,5 cm con spessore 2,4 mm. Per reperire gli elettrodi di tungsteno, basta rivolgersi a negozi di ferramenta attrezzati per la saldatura tipo TIG.

Attenzione, in commercio esistono elettrodi di questo tipo contenenti circa il 2% di ossido di torio. Per quanto normalmente venduti ed ammessi dalle leggi italiane io sconsiglio vivamente l'utilizzo di questi ultimi. Poiché durante la reazione elettrolitica si osserva un certo consumo dell'elettrodo catodico (l'anodo molto di più ), utilizzando tungsteno tipo toriato, incorrereste certamente in pericolosi inquinamenti della vostra soluzione con estremo pericolo per voi stessi. Il torio, come voi già sapete, è radioattivo. Scusate se mi ripeto in questo punto ma, state molto attenti. Il tungsteno toriato infatti, sta per essere ritirato dal commercio e al suo posto si sta già commercializzando un altro tipo di elettrodo TIG chiamato tungsteno ceriato che contiene cerio al posto del torio. Comunque, presso un rivenditore di utensili ed accessori per saldature, è possibile reperire con relativa facilità anche elettrodi costituiti da tungsteno puro quindi non dovreste avere difficoltà a procurarveli. La maggior parte dei produttori di questi elettrodi, utilizza un contrassegno verde per indicare l'elettrodo di tungsteno puro, mentre utilizza un contrassegno rosso per indicare quello toriato.

Nelle immagini in rete sul sito di Naudin si osserva che l'elettrodo catodico è a sua volta racchiuso in un tubicino di vetro. Questo espediente sembra essere molto importante per permettere la scarica di plasma sul catodo. Ci siamo accorti (intanto per le condizioni sperimentali che sto descrivendo), che occorre lavorare con circa 1 cm di elettrodo catodico scoperto. L'anodo invece può essere collocato senza particolari problemi. Il tubicino di vetro utilizzato per coprire parte del catodo è di tipo pirex ma il nostro gruppo di Caserta ha ottenuto migliori risultati quando abbiamo utilizzato un tubo ceramico.clicca per l'ingrandimento

Infatti, quando la scarica di plasma viene generata, le temperature presso l'elettrodo raggiungono livelli elevatissimi. L'amico A.D. ha calcolato la temperatura raggiunta dall'elettrodo catodico ponendo superiormente ad esso un sensore di temperatura collegato con il computer. Nello strato di plasma pare che si verificano livelli di temperatura che oltrepassano i 3000 °C.

In queste condizioni operative così estreme del catodo, il vetro del tubicino che lo avvolge si degrada e fonde. Normalmente la scarica di plasma prima passa per una fase azzurra molto breve poi si porta ad assumere un colore rosso arancio, infine raggiunge nelle condizioni a regime un colore viola o rosa per poi fornire al completamento ottimale delle condizioni di funzionamento della cella, un colore bianco.

Considerando le condizioni dell'elettrodo nella fase iniziale, cioè la fase buia o nera, mi sembra quasi il passaggio delle fasi alchemiche chiamate: nigredo, rubedo e albedo al compimento della grande opera. Ovviamente questa mia suggestiva constatazione non deve essere presa alla lettera. Se usate il tubetto di vetro, durante la prova osserverete purtroppo anche una curiosa colorazione gialla posta sopra la zona di plasma che inquina i risultati di analisi radiometrica del bagliore. Questa colorazione, indica appunto la fusione del vetro del tubicino. Il colore giallo è caratteristico dell'emissione spettrale del sodio che è contenuto nel vetro. Per evitare questo fenomeno è possibile usare un tubetto di ceramica refrattaria come l'allumina o altri tipi similari.

Per apprezzare la qualità della scarica di plasma e determinare esattamente gli istanti temporali quando essa si presenta, abbiamo collocato nel nostro impianto due sensori. Un sensore è costituito da una cella fotoresistiva in grado di darci informazioni generali sulla luminosità della cella. L'altro sensore è costituito da un pirometro in grado di monitorare lo spettro di energia luminosa prodotto dal catodo. Inoltre, nella figura allegata appare anche un contatore di neutroni che abbiamo realizzato alla meglio per darci eventuali indicazioni di radiazioni nocive emesse dalla cella.

Nell'articolo di T. Mizuno e T. Ohmori si legge che la reazione elettrolitica produce un flusso di neutroni pari a circa 60.000 conteggi al secondo. Vorrei far osservare che se questo dato corrisponde al vero, non è conveniente procedere alla verifica di questa esperienza senza munirsi di particolari protezioni. I neutroni sono un tipo di radiazione estremamente subdola e pericolosa. Essendo particelle prive di carica elettrica possono attraversare molti centimetri di materia prima di fermarsi. L'intensità di un flusso neutronico da 1MeV può essere ridotta alla metà solo dopo che essa attraversa 10 cm di acqua, oppure 4,5 cm di calcestruzzo, oppure 0,9 cm di piombo. Se invece il flusso originario fosse di 10 MeV occorrerebbero 14 cm di acqua per dimezzarlo. Fate attenzione che sto parlando di dimezzamento del flusso di neutroni. Quindi, per ridurre a livelli trascurabili il flusso della radiazione, occorrerebbe moltiplicare per 4 o 5 volte gli spessori delle sostanze che ho elencato sopra.

Attualmente non conosciamo lo spettro di energia dei neutroni che vengono prodotti da questo esperimento. Comunque è molto importante sapere che la paraffina e il polietilene sono altri materiali schermanti grazie alla grande quantità di idrogeno presente nelle molecole che li compongono. Nel disegno sopra appare in evidenza una finestra trasparente in metacrilato (plexiglas) posta proprio davanti alla cella. Questo schermo (che ha uno spessore di diversi centimetri), è in grado di dare una certa protezione per i neutroni, se occorre necessariamente effettuare osservazioni del fenomeno, augurandosi che l'operatore si ponga a debita distanza e operi per brevissimi tempi. Un consiglio potrebbe anche essere l'uso di specchi combinati opportunamente per l'osservazione.

A questo punto è spontaneo da parte del lettore chiedersi se noi abbiamo misurato o meno un flusso di neutroni. Allo stato attuale non possiamo rispondere con certezza a questa domanda. Il nostro precario contatore di neutroni potrebbe anche aver conteggiato dei disturbi elettromagnetici. Pertanto, sarà importante leggere una nostra successiva comunicazione per conoscere eventuali risvolti e sapere qualcosa di più concreto su questo punto. (ndr. a tal proposito si dia una lettura alla seguente pagina)

La misura della temperatura ha presentato subito diversi problemi a causa delle forti emissioni elettromagnetiche del plasma che dicevamo poc'anzi. E' stato deciso di utilizzare un sistema integrato di acquisizione per tutti i segnali rilevati dai trasduttori, a sua volta completamente gestito da un personal computer, con un programma realizzato ad hoc per questa esperienza. Pertanto, è stato necessario utilizzare delle termocoppie per misurare le varie temperature presenti nel processo. Il sensore di misura della temperatura, immerso nella cella, è costituito da un involucro in vetro al cui interno è stata posta una termocoppia tipo J (ferro costantana) a sua volta schermata da un contenitore cilindrico di ottone cromato posto a massa.

Questa disposizione non ha impedito la presenza di forti disturbi elettromagnetici che si presentano in modo evidente nell'immagine successiva nel quadrante in basso a destra. Un'altra termocoppia è posta (isolata galvanicamente) a diretto contatto dell'estremità superiore del catodo. Grazie a questa termocoppia è possibile ottenere informazioni sulle vicissitudini termiche di questo elettrodo. Un'ultima termocoppia è posta nell'ambiente per avere a disposizione anche quest'ultimo dato termico.

Per l'alimentazione elettrica della cella è stato utilizzato un variac connesso ad un alimentatore in corrente continua in grado di erogare una tensione variabile da 0 a 300 volt con possibilità di fornire anche correnti di spunto di 6 A. Il sistema computerizzato registra costantemente tutte le grandezze campionandole diverse volte al secondo. Quindi mentre l'operatore regola il variac modificando il valore della tensione applicata alla cella, il sistema registra il valore di questa tensione, il valore della corrente circolante nel circuito di cella e tutti gli altri trasduttori presenti. In questo modo il sistema procede al calcolo delle calorie introdotte e di quelle via via misurate grazie ai sensori termici.

La figura qui a fianco mostra, come esempio, quattro grafici relativi ad un'acquisizione effettuata nel mese di novembre 2003. Il primo grafico mostra l'andamento della tensione regolata manualmente tramite il variac. Le variazioni riportate, sono state praticate volutamente per attivare il fenomeno di elettroplasma per tre volte durante i 1200 secondi della durata totale della prova. E' possibile vedere anche l'andamento della corrente e della temperatura della soluzione. Confrontando i grafici di tensione con quelli ottenuti in risposta dal radiometro è possibile determinare la condizione di innesco riportata tramite una freccia rossa. In questo specifico caso l'innesco dello stato di plasma si è verificato ad un potenziale vicino ai 143-150 volt.
Sia nel report originario di Mizuno/Ohmori che nell'articolo in rete di Naudin si legge che la soluzione di K2CO3 deve essere preriscaldata ad una temperatura di 70 °C. Questa consuetudine operativa serve per guadagnare tempo e raggiungere immediatamente la condizione di innesco che per ragioni teoriche che più avanti vedremo, avviene proprio ad una temperatura superiore a 70 °C.

Quindi, per condurre l'esperimento è necessario porre il variac a zero volt e procedere lentamente fino al di sotto del punto di innesco senza oltrepassarlo. A questo punto esaminando i valori via via riportati dal computer è possibile determinare una linea di base e calcolare le perdite calorimetriche in questa condizione. Consiglio uno scan non superiore ad un centinaio di secondi a circa 120 V di cella. Una volta modificate le costanti nel programma si potrà procedere per la prova vera e propria raggiungendo il punto di innesco e misurando quindi, livelli di energia termica sensibilmente maggiori delle aspettative.

Mi sembra ovvio che la misura calorimetrica risulta essere estremamente indicativa poiché affetta da un numero molto elevato di errori. Le indicazioni calorimetriche devono essere necessariamente interpolate attraverso i calcoli che tengono conto del calore latente di evaporazione dell'acqua e quindi dell'esatta misura della quantità di acqua evaporata. Le prove calorimetriche devono essere di breve durata, per ridurre l'errore prodotto dalla variazione della capacità termica del calorimetro a opera dell'acqua che evapora. Molto importante deve essere anche il dosaggio della depressione creata dall'aspiratore dei fumi che non deve in qualche modo modificare la pressione sulla cella per evitare che varino i parametri calcolati a pressione atmosferica.

CONCLUSIONI E TEORIE

Attualmente non possiamo e non vogliamo procedere oltre le prove pratiche che abbiamo già effettuato. Le ultime esperienze infatti, sono state effettuate in un laboratorio campale che non ci consente di operare in comodità per cui il nostro interesse alla cosa si sta attualmente concentrando solo sugli aspetti teorici, circostanziati a verificare le probabili reazioni di "fissione fredda", come ha avuto modo di definire scherzosamente il mio amico A.D. a proposito della reazione che T. Mizuno e T. Ohmori hanno proposto, oppure (come noi pensiamo), ad altre reazioni che possono prodursi in seno alla cella.

Attualmente stiamo valutando due possibilità. Una di queste, potrebbe essere una reazione di fusione nucleare ma, per adesso abbiamo solo delle interessanti coincidenze matematiche. L'altra possibilità potrebbe essere una particolare reazione di pirolisi dell'acqua perpetrata dall'elettrodo di tungsteno catodico.
Nella relazione di T. Mizuno e T. Ohmori riportata nel bollettino ICCF-7 i ricercatori del sol levante hanno pubblicato questo tipo di reazione nucleare:



Essi, probabilmente sono certi di spiegare il fenomeno energetico attraverso una reazione di fissione. Questa reazione nucleare spiegherebbe in qualche modo la rilevazione dei neutroni che i due ricercatori dicono di aver misurato. Infatti, se consideriamo i pesi atomici dell'equazione, essa è perfettamente bilanciata. Se però analizziamo i numeri atomici ci troviamo 12 protoni in più.



Questi protoni tramite il noto processo di interazione debole si trasformeranno a loro volta in elettroni positivi (positroni) e in neutroni. E' proprio a causa di questo grande numero di elettroni positivi prodotti da quest'ultima reazione che viene promosso l'intenso stato di plasma a carico dell'elettrodo. Nei pressi dell'interfase catodica quindi, la violenta reazione di combinazione delle cariche ioniche che si ossidano e si riducono presso l'elettrodo, probabilmente catalizzata dagli atomi di potassio presenti nell'elettrolita innescano in qualche modo questo straordinario processo. Il processo, sembra infatti, dipendente fortemente da una soglia di densità di corrente che deve essere in qualche modo raggiunta.
T. Mizuno e T. Ohmori hanno riportato un dato interessante. Se l'elettrolita viene cambiato utilizzando del solfato di sodio il numero dei neutroni prodotti si riduce notevolmente. Questo fatto deve farci riflettere attentamente e dimostra che l'elettrolita può modificare il risultato di questo esperimento.
Tuttavia, sono state fatte dal nostro gruppo di lavoro di Caserta alcune misure che hanno rilevato una certa proporzionalità fra il consumo di materiale catodico ed il sovrappiù di energia che rileviamo nella cella.
Se le cose stanno in questo modo, ed anche sulla base di alcuni nostri calcoli, ci troviamo di fronte ad un possibile sfruttamento di questa energia. Il costo del materiale catodico consumato è infatti di gran lunga inferiore al ricavo energetico totale. Ma per essere certi di questa affermazione sono necessari ulteriori studi e approfondimenti.

In questo momento infatti, abbiamo un'espressione matematica che mette in relazione le calorie prodotte con il consumo di tungsteno. Ulteriori indagini e verifiche saranno eseguite per stabilire la correttezza del nostro modello matematico.
La cella di T. Mizuno e T. Ohmori sembra essere l'antico l'Athanor dei vecchi alchimisti che cercavano la pietra filosofale, ma molta strada deve ancora essere percorsa per riuscire a trovare un applicazione conveniente per questa scoperta.

Nota1) Nel testo della relazione di T. Mizuno e T. Ohmori si può osservare un errore di cui certamente è da attribuirgli una causa tipografica. La relazione di fissione presentata dagli autori si completa con il termine b- palesemente errato. Infatti, se un neutrone si trasforma in protone sono prodotti anche un elettrone negativo (b-) e un antineutrino. Viceversa se un protone si trasforma in neutrone (come nel nostro caso), abbiamo la produzione di un positrone (b+) e di un neutrino.

Alessandro Dattilo, Domenico Cirillo e Vincenzo Iorio


RACCOLTA di IMMAGINI

Sequenza accensione plasma

La cella elettrolitica

Altre immagini dell'esperimento


Relazione del 20/12/03